Questo lavoro nasce da una domanda che continuava a tornarmi in mente. Quanto di ciò che sono veramente viene da dentro di me e quanto è stato forgiato e plasmato dalle norme della società. Credo che mi stessi domandando chi sono.
Più andavo a fondo in questa domanda, più la risposta sembrava allontanarsi. Non sapevo come connettermi a questo territorio inesplorato. Dubitavo di tutto. Mi sono dunque avvicinata al tema dei bambini selvaggi: bambini che hanno passato i primi anni della vita senza contatti con gli esseri umani, cresciuti da animali o tenuti segregati da genitori snaturati. Ho pensato che questi bambini dovevano essersi formati a partire da se stessi. Mi sono chiesta come si sarebbero comportati, come si sarebbero mossi. Attraverso questo “filtro” ero in grado di connettermi a un luogo interiore che sentivo inviolato.
Durante la mia ricerca mi sono imbattuta nella storia di Genie, una bambina che aveva passato i primi tredici anni di vita legata a un vasino, chiusa sola in una stanza da genitori degeneri. Dopo il suo ritrovamento nel 1970 ha passato la vita tra autorità, scienziati e servizi sociali. Seppure la storia di Genie sia uno straziante racconto di abusi, sono stata profondamente ispirata da come avesse sviluppato una fisicità umana alterata. Le persone ne erano colpite. E io con loro.
Questo lavoro è dedicato a lei. In un’altra vita avrebbe potuto essere qualsiasi cosa avesse voluto.
coreografia e performance Meytal Blanaru
musica Noam Dorembus
costume Yaarit Eliyahu
produzione SEVENTYSEVEN
Coproduzione DanscentrumJette/The Spider Project, Shades of Dance Festival/Suzzane Dellale Center, Association Mosaicodanze
With the support of Aerowaves