Inequilibrio, festival della nuova scena al Castello Pasquini di Castiglioncello
Un festival sui linguaggi della contemporaneità con spettacoli di teatro e danza. Il festival si articola in due lunghi week end dal 25 al 29 giugno e dal 2 al 6 luglio 2014.
Inequilibrio, il festival della nuova scena tra teatro e danza al Castello Pasquini di Castiglioncello, giunge alla 17a edizione con la nuova direzione artistica congiunta di Angela Fumarola e Fabio Masi, confermando la propria identità di osservatorio sui linguaggi della contemporaneità soprattutto italiana, attraverso la produzione e l’ospitalità di spettacoli di teatro e danza.
Il festival per la prima volta si divide in due tranche, due lunghi fine settimana (25-29 giugno/ 2-6 luglio 2014) con molti appuntamenti giornalieri, 30 compagnie, 19 prime nazionali, 51 repliche, molte coproduzioni e ospitalità.
Nella programmazione del Festival tanti gli spettacoli di danza già nel primo long week end.
Tra il 25 e il 29 giugno sono in scena quattro autrici toscane, sostenute in parte anche dalla rete Anticorpi XL e vincitrici di diversi premi: Claudia Caldarano con Essere, un assolo da lei stessa interpretato, Elena Giannotti con Pitch Black, un assolo sulla danza e su ciò che esiste nello spazio immaginativo del performer, Elisa Canessa con Bruno, uno spettacolo che si basa sulla vera vita del maestro della letteratura polacca Bruno Schulz, e Claudia Catarzi con 40.000 CENTIMETRI QUADRATI. I lavori di queste autrici rappresentano un esempio di collaborazione fra Armunia, la rete XLAnticorpi, Company Blu, Sosta Palmizi, Il centro artistico Grattacielo e Romaeuropa.
Il 28 e 29 giugno tra gli eventi danza anche il debutto nazionale del duo portoghese Sofia Dias & Vítor Roriz in A gesture that is nothing but a torea.
Numerosi gli appuntamenti danza anche nel secondo week end di Inequilibrio.
Il 3 e 4 luglio Nicola Galli debutta con JUPITER AND BEYOND, una creazione che accoglie il risultato del tragitto artistico tracciato fin qui dal corografo Galli, che si sperimenta per la prima volta con un gruppo.
Tra gli eventi segnaliamo il 5 luglio O O O O O O O O di Giulio D’Anna, uno specchio dello stato sentimentale dei giovani adulti europei. Il gruppo CANI, vincitore della edizione 2013 del Bando Ripensando Theremin, porta al Festival GOOD VIBRATIONS, una coproduzione di Armunia.
Chiude la programmazione danza Daniele Ninnarello con Rock Rose Wow.
EFFEBIDANZA 20/06/2014
Le virtù dei luoghi sono degli uomini cui appartengono? Può darsi, fatto è che vedere uno spettacolo in uno o l’altro posto d’Italia, al sud o al nord, in un teatro o all’aperto, in un festival o in stagione, prende davvero tutto un altro sapore. Avevamo lasciato Castiglioncello, nel Castello Pasquini dove risiede il centro di produzione Armunia e il festival Inequilibrio, alle prese con un cambio di direzione in corsa: via Andrea Nanni, stimato critico e operatore che aveva gestito con qualità la difficile successione di Massimo Paganelli, dentro una coppia formata da Angela Fumarola e Fabio Masi, da anni nell’organico direttivo e quindi tra i pochi capaci in così pochi mesi di prendere le redini di una stagione fino a questa riunione estiva. Negli ultimi giorni del festival c’è stato modo di apprezzare come certi luoghi vivano i cambiamenti, come maturino le occasioni dagli uomini determinate, cosa cioè producano come fossero parte della magia e non il terreno, la condizione ambientale, in cui essa si manifesta.
Tutto ciò accade perché Armunia sulla costa etrusca coglie il dialogo tra le onde e la riva, tra fondale e membrana. Il teatro è ciò che accade nel mezzo, nella distanza che separa l’invisibile dal visibile, il presunto dal vero. Ma per questo c’è bisogno del metodo, del tempo, della misura. Di un progetto forte che vada oltre i pochi mesi concessi alla nuova direzione.
Al centro l’attore, si diceva in un precedente articolo, a dominare una proposta che ha chiamato molti degli artisti di casa al castello per sostenere questo difficile passaggio. Ma l’attore cos’è mai senza un ascolto? E allora è proprio in certi luoghi che prende corpo quell’abuso cui ci rimettiamo per i nostri racconti, ossia la relazione, la risacca di un ragionamento che uno scroscio lava via, lasciandolo netto e rilucente.
Per esempio sul pavimento di una scena nelle sale interne, c’è un libro riverso sulla faccia di due pagine, mi avvicino, Pavel Florenskij, Le porte regali, Saggio sull’icona. Eppure qui si era per vedere cosa avevano intenzione di fare Gaetano Ventriglia e Silvia Garbuggino con il Don Chisciotte, dinoccolati Cavalieri dalla triste figura alla ricerca della pienezza espressiva nella nudità della scena. Si comprende presto come questi “appunti” per uno spettacolo da farsi passino per un ascolto intermedio, necessario all’evoluzione. Ma soprattutto che per fare il Don Chisciotte l’idea dell’autore di uno spettacolo contemporaneo deve attraversare ben altre opere, meglio ancora un comparto evolutivo del pensiero che ne sostenga la soluzione artistica, concreta: la rappresentazione. Perché allora è riverso, Florenskij, a mostrare il dorso della sua presenza fisica? Il filosofo russo, vissuto tra Ottocento e Novecento, compie un viaggio nell’arte, più precisamente in essa scorge il segno cui si aggrappa proprio la rappresentazione, l’icona, svolgendo il suo carico ontologico proprio come passaggio di stato, nodo simbolico tra mondo visibile e mondo invisibile. Cos’è allora un libro sul dorso se non un simbolo di un passaggio organico tra realtà e rappresentazione? Cosa se non il fulcro della mutazione di un’idea nell’opera? Tutto si apre con un immaginifico testo di Ventriglia, una poesia sospesa si mette lì tra mare e terra, neve sulla battigia, un sogno che dell’opera da svolgere, del vero che la riguarda, sa già tutto. Oltre ogni falsificazione che la realtà, sulla verità, impone. E allora verranno le lotte contro le greggi di pecore, conto i famosi mulini a vento, verrà il sodalizio con Sancho Panza e l’amore per Dulcinea. Nascerà, questo spettacolo, dalle ceneri di tutti quelli che non faranno. Teatro è scelta, levigatura di desideri, eliminazione dei superflui. Il testo di Florenskij è rimasto sul pavimento, poco discosti se ne parlava, con gli autori. È stato allora che è accaduto quello che qui accade: lo spettacolo ha ricominciato il suo volteggiare, l’idea ha preso giovamento di una visione di rimando. Un simbolo ancora una volta ha legato due mondi, creandone uno ulteriore e tutto nuovo.
Parecchi secoli più tardi di Miguel de Cervantes, Ernest Hemingway scriveva Il vecchio e il mare. Era il 1952 e gli valse il Premio Nobel due anni dopo. Roberto Abbiati ci accoglie con una chitarra malandata, scordata, nella prima delle tante sale in cui la vicenda si dipanerà, un site specific nato con il laboratorio di costruzione teatrale in accordo – assonanza – alla musica di Alessandro Nidi per strumenti rudimentali azionati da dodici ragazzi attori. Quattro sono i vecchi, i dodici sono il mare. O questo sembra, nella “costruzione teatrale” che li coinvolge come da progetto, ma al punto di diventare essi stessi il teatro. Proprio in questo contatto tra Santiago e Manolin, tra generazioni umane, prende vita l’opera, di grande impatto visivo e sonoro, di splendida qualità evocativa: il vecchio che lotterà con il mare per il pesce che ha pescato e che perderà, cova in sé i caratteri del metodo, cioè dell’umanità, la pesca diviene così un fulcro dell’esistenza, senza cui la vita sarebbe impossibile. Il ragazzo è suono, scroscio di mare, proiezione della stessa umanità, di metodo ancora priva. La bolla sonora in cui si muove la loro relazione è ancora un passaggio di stato, di tempo, di emozioni. È poesia il lascito testamentario di Santiago a Manolin, dell’uomo alla sua evoluzione, del mare ai suoi flutti, di ciò che insomma resta in un segreto di fondale a ciò che, una volta ancora, raggiungerà la riva.
Simone Nebbia
Teatro e Critica 15/07/2014